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Le “Grotte degli Sbariati” e il Museo della civiltà contadina.

Era il 1983 quando, sulla rivista La Domenica del Corriere, apparve un articolo dal titolo “Un eccezionale documento: le «case grotta» medievali in Calabria. Anno Mille la città della paura”. A questo articolo ne seguirono molti altri su giornali locali e nazionali, tra cui La Repubblica. La notizia, quindi, non passò inosservata.

Poteva sembrare una scoperta inquietante se non fosse altro che ad essere “riscoperto” era stato un Insediamento Rupestre conosciuto molto bene dagli abitanti del luogo anche se ignari di ciò che fosse, ma totalmente sconosciuto alla comunità scientifica.

A dare l’avvio a questa campagna di ricerche su tutta l’area del Poro fu, già dalla fine degli anni ’70, l’archeologo Achille Solano, consapevole che quella scoperta avrebbe stravolto le poche notizie storiche note riguardanti le comunità contadine medievali dell’intero Sud. Le ricerche portarono ad individuare un vero e proprio insediamento interamente scavato nella roccia, situato in una meravigliosa vallata che affaccia sul Golfo di Sant’Eufemia.

Oggi, a distanza di circa 40 anni da quella sensazionale scoperta, l’Insediamento Rupestre di Zungri rappresenta una delle più importanti attrazioni turistiche dell’intera Calabria, terra di naturale bellezza e dove l’ingegno dell’uomo nel corso dei secoli ha saputo, con grande maestria, produrre immense opere architettoniche.

Da sempre miti e leggende si mescolano con tradizioni e culture diverse in questa terra baciata dal sole, terra che fu la Magna Grecia, e che oggi viene scelta per la sua bellezza incontaminata, dove i monti sovrastano il mare e dove la natura si fonde e si confonde con gli innumerevoli beni architettonici ed archeologici ereditati da un glorioso passato, sparsi ad ogni su tutto il territorio.

Meglio conosciuto come le “Grotte degli Sbariati”, il sito archeologico si trova a ridosso del centro storico di Zungri, in provincia di Vibo Valentia, situato nel cuore del Monte Poro a pochi km da Tropea, Capo Vaticano e Pizzo. Il sito è adagiato in paesaggio incontaminato che sembra abbracciare il visitatore ricreando forti emozioni, dove lo sguardo si perde tra fossili e segni religiosi, in un angolo nascosto che sembra un presepe sopravvissuto al tempo, e che attende ancora di essere pienamente studiato riservando ogni giorno scoperte sorprendenti.

Secondo il prof. Solano, il toponimo di Zungri è di formazione neogreca, ad indicare “roccia, rupe, dirupi”. Tale significato si adatta benissimo alle caratteristiche morfologiche del luogo, dove, intorno all’anno mille, si edificò l’attuale villaggio che fu luogo di intenso e produttivo lavoro rurale, sicuramente sotto l’impulso di primitivi habitat monastici. “Sbariati”, furono gli abitanti di questo luogo, «sbariat», sbandati, fuggiaschi, erranti, appellativo che indica chiaramente le condizioni di vita di comunità dove monaci laici e contadini, fuggiti dall’Africa e dalla Sicilia in seguito alle invasioni barbariche, qui hanno trovato riparo e qui seppero imprimere, con grande maestria, l’arte scalpellina.

Una comunità dedita al lavoro agricolo e pastorale, che ospitò anche menti ingegnose che, con abilità e parsimonia, scalpelli e picconi, seppero ricavare dalla roccia un habitat adatto alle proprie esigenze, composto da cavità rupestri multifunzionali dove palmenti, attività produttive, stipiti ed archi ribassati incisi sui portali d’ingresso denotano uno stile di vita molto avanzato in cui la popolazione, gerarchicamente avanzata, viveva in autonomia.

Un sito che prende forma già nell’Età del Bronzo e del Ferro e che continua ad essere plasmato fino al Medioevo e vissuto con continuità fino ad epoche recenti.

La parte alta del villaggio è caratterizzata da ambienti allineati, a doppia altezza, mancanti di copertura, crollata a causa dei vari terremoti. Parti di essi sono stati realizzati successivamente con l’ausilio di paramenti murari, costituenti quindi la parte più recente dell’insediamento. Sono presenti, infatti, alcune vasche rettangolari che fanno supporre un ultimo utilizzo come mangiatoie scavate al piano terra, convertito a ricovero per animali, mentre il piano superiore, destinato ad uso abitativo, è chiaramente leggibile sia per la presenza di finestre che di fori destinati ad accogliere le travi dei solai.

Proseguendo verso valle, le cavità si fanno più complesse e si collegano alla gradinata principale tramite scale scavate nella roccia, convergendo su quello che potrebbe essere stato un piccolo impianto ecclesiale in alto, definito dal prof. Solano il «katolikon», formato da due ambienti a pianta ovoidale sormontati da tre maestose cupole con foro centrale, che ricordano le abitazioni pastorali dell’antica Serbia, con nicchie votive all’interno di cui quella ricavata sul lato opposto all’ingresso viene illuminata al sorgere del sole da una intensa luce filtrata da un’apertura frontale, ed un grande graffito inciso sulla calotta della cupola centrale raffigurante quello che, ad un più attento esame, potrebbe ricordare un grade pesce inciso, chiaro simbolo paleocristiano, in greco IXTHYC (ichtùs) : Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

La stratificazione dello scavo è chiaramente leggibile dall’alto verso il basso. Dagli ambienti troncoconici, in successione, si scavò verso ambienti ancora più interrati che possono essere considerati il vero anello di congiunzione tra la civiltà più antica, quella nomade e dipendente dai flussi migratori, con quella più organizzata, più stabile e che aveva la necessità di una dimora più sicura.

La stratificazione dello scavo indica preesistenze risalenti ad epoche più antiche, alcune riadattate, secondo il prof. Francesco Cuteri, in epoca greca e bizantina in silos utilizzati per la conservazione del grano. Molti silos, infatti, si ritrovano in tutta la vasta area dell’Insediamento, motivo per il quale è stato riconosciuto come il “grande granaio del Poro”, stoccaggio delle derrate agricole utilizzate non solo per il fabbisogno della popolazione locale ma anche come merce di scambio. Qui il grano veniva conservato, ma anche nascosto per le continue razzie e ruberie che imperversavano in tutta la zona, rivelandosi così un perfetto luogo di nascondiglio.

E fu proprio tra il VII e l’VIII secolo che i granai si trasformarono in un complesso urbanisticamente ben funzionale, che diede ospitalità ad una comunità molto avanzata dando vita, così, a quello che oggi potremmo definire “nucleo centrale”, proseguendo il lavoro di scavo iniziato già secoli inglobando le cavità più antiche del sito e preservando quelle primitive che si trovano al di fuori del nucleo centrale, destinate, forse, ad una vita di isolamento e che si distinguono nettamente dal complesso principale anche per la differenza stilistica ed architettonica.

Definito “un eccellente esempio di ingegneria idraulica”, il sito è caratterizzato da una fitta rete di canalizzazione che raccoglie l’acqua piovana nelle varie vasche poste a diversa altezze lungo la bellissima gradinata che attraversa tutto l’abitato, fino a raggiungere la parte più bassa, quella più antica, ricca di sorgenti, parte integrante dell’intero complesso rupestre. Qua si snodano una serie di vasche che raccolgono acqua sorgiva il cui utilizzo primitivo non è ancora noto, così come non note rimangono le origini dell’intero sito.

Di quello che un tempo fu un ben strutturato aggregato ad economia agricola oggi rimane un piccolo gioiello di architettura rupestre, dove, sulle pareti segnate dai solchi degli scalpelli si proietta un gioco di luci e di ombre, di vuoti e di pieni.

Una tecnica di scavo che rasenta la perfezione, un gioiello di ingegneristica idraulica, un progetto architettonico basato sullo studio della statica e sull’equilibrio perfetto con il paesaggio in cui è inserito: tutto questo è il sito rupestre denominato le Grotte degli Sbariati.

Il sito è facilmente raggiungibile dopo aver visitato il Museo della Civiltà Rupestre e Contadina, posto all’ingresso del viale di accesso.

Esso accoglie, dal 2003, numerosi reperti frutto di donazioni dei cittadini zungresi a cui, negli anni, si sono aggiunte quelle di donatori dei centri limitrofi e, come uno scrigno, custodisce la “memoria storica del passato”, la cui funzione principale è quella del recupero della memoria per riuscire a veicolare la mente verso progetti futuri ecosostenibili. Infatti, attraverso varie sezioni espositive, il visitatore viene accompagnato in un viaggio nel tempo, alla scoperta di oggetti, suppellettili, attrezzi, utensili, vestiti, biancheria tipici delle abitazioni così come della lavorazione nei campi e degli spazi destinati agli animali, della lavorazione dell’uva, dell’olio, del grano, della ginestra, della canapa, del lino e della lana. Sono presenti oggetti legati alla vita spirituale, oggetti sacri e della devozione popolare, parte integrante della vita contadina, così come arredi molto poveri tipici del XIX e XX secolo.

A corollare la vita del tempo, all’interno del Museo è stata anche esposta una mostra fotografica raffigurante il terremoto che nella notte dell’8 settembre 1905 sconvolse il vibonese e parte della Calabria centrale (600 morti e migliaia di feriti), “oscurato” dal tremendo cataclisma che tre anni dopo, la notte del 28 dicembre 1908, rase al suolo Reggio Calabria e Messina.

Solo negli anni ’50 si cominciò a pensare ad una ricostruzione del territorio, dopo che per lunghi decenni le popolazioni furono costrette a vivere in povere baracche di legno prive di qualunque servizio. In piccole stanze vivevano intere famiglie, anche numerose, senza acqua e senza servizi igienici.

Le foto della mostra che raccolgono le immagini e le cronache della stampa nazionale e locale dell’epoca, ricostruiscono i giorni immediatamente seguenti il disastroso “terremoto dimenticato”. Le immagini esposte, pubblicate allora su vari giornali (Illustrazione Italiana, Domenica del Corriere, Tribuna illustrata, Il Mattino, L’Ora, La Stampa, etc.) documentano gli effetti devastanti del sisma, i ricoveri provvisori in attendamenti e le baracche, i soccorsi della Croce Rossa, l’arrivo del Re e le varie iniziative di solidarietà che furono organizzate da tutta Italia. Immagini forti che mostrano anche, e per la prima volta, spaccati delle condizioni sociali ed economiche della Calabria d’allora, intrisa di estrema povertà.

Museo e Insediamento rupestre costituiscono un unico parco archeologico dove natura, biodiversità, architettura, archeologia, antropologia e storia si fondono immersi in un panorama straordinario che si affaccia sui dolci terrazzamenti che conducono al mare.

Il sito è stato recentemente valorizzato ed arricchito con pannelli descrittivi in duplice lingua ed app multimediali che accompagnano il visitatore in una piacevole e sorprendente visita che parte dal Museo della Civiltà Contadina, all’interno del quale sono stati installati un totem per la visione di un documentario descrittivo ed un tavolo touch dove è stata installata la mappa interattiva dell’area rupestre.

Oltre all’app gratuita “Zungri” è stato realizzato il sito web (www.grottezungri.it) con foto e descrizioni del Museo e dell’area rupestre, eventi e notizie interessanti, arricchito con un 360° Virtual Tour, grazie al quale si può godere di una piacevole passeggiata comodamente da casa.

Arch. Maria Caterina Pietropaolo

Direttore del Museo ed Insediamento Rupestre di Zungri (VV)

Per info www.grottezungri.it

App gratuita “Zungri”

info@grottezungri.it , grottezungri@libero.it

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